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Cordai

Agli inizi del secolo, la piazza del Grammercato, era ancora animata da una ventina di quelle ruote giganti e il cordaio col tipico “passo del gambero” tirava le fila di canapa intrecciando corde di ogni grossezza e spronava il ragazzetto di otto anni “a girà la ròda”. Era un mestiere duro che iniziava all’alba per terminare a tarda ora: si percorreva il “sentiero” centinaia di volte e quando la fatica e la stanchezza annebbiavano la vista, si imponeva una pausa che era resa più allegra da un “quartì de vì’ “.

Il pranzo consisteva nel mangiare, a volte anche in piedi durante il lavoro, i kuderizzi de pa’ co’ le fòjje bollide e strascinade, ossia i semifiloni di pane riempiti con le verdure, in particolare spinaci, bietole, cavoli, bollite e soffritte nel lardo, con la frittata o con i legumi.

L’arte della corda era tramandata di padre in figlio e non conosceva sosta né quando i gelidi inverni irrigidivano mani e piedi né quando l’afa estiva si abbatteva sulla larga piazza del Mercatale facendo grondare di sudore grandi e piccoli cordai. Dalle tre alle sei l’ artigiano preparava il lavoro e quando il tenue sole del mattino faceva capolino sulla piazza ancora vuota, essa si animava al suono di “Eccolo Eccolo è Rivado Rigì” . Era la tipica “fischiata al sole “, una specie di inno festoso dedicato alla nuova giornata; in breve, uomini e cose si illuminavano e il borgo si apprestava a vivere un nuovo giorno.

Il cordaio si legava intorno allo stomaco la matassa di canapa, poi sfilava con una mano un ciuffo di fibra e lo infilava intrecciandolo nel nasèllo della girella in rotazione. Intanto l’artigiano iniziava il suo cammino a ritroso lungo il sentiero, tenendo in mano una pezza di feltro inumidita per dare maggior compattezza alle fibre contorte e allo stesso tempo proteggere la mano. Ogni filo in torsione veniva appoggiato sulle rastelline per restare separato dagli altri. Al termine della filatura, il filo veniva posto a terra e legato alle caviglie; il cordaio, poi, gridava” porte averte” e ogni manufatto veniva alzato da terra e appoggiato sulle rastelline, mentre l’estremità di ogni filo veniva attorcigliata al nasello delle girelle in movimento, mentre l’altra estremità veniva avvolta all’uncino del garbì. Ogni filo in torsione, fatto scorrere lungo le scanalature che attorniavano la forma tenuta dal cordaio, veniva commesso insieme agli altri per formare il nómbolo, cioè la corda.Una volta composta, la fune veniva legata ad una caviglia e sottoposta a tensione, per risultare più omogenea e compatta.Questa operazione veniva eseguita lungo uno stradello parallelo a quello principale. Alla fine la corda, posta sopra le rastelline, veniva ripulita dai ruschi con stracci di juta bagnati poi veniva strisciata in senso opposto alla commettitura con la maglia di ferro e lisciata nella stessa direzione della commettitura con una pezza di cotone. Durante la notte,le corde più scure venivano messe a bagno nell’acqua dove era stato sciolto lo sbiango, cioè il perborato di sodio e la mattina successiva lucidate e levigate con il tiratóre, una piccola matassa di spaghi, spalmata con sapone molto grasso. Dopo questa operazione, la corda era lasciata asciugare al sole e appoggiata sopra i rastrelli; prima di essere venduta, veniva confezionata in matasse o inrotoli; infine la corda veniva avvoltolata tramite due strumenti che erano il ciurlo o la stampa.

I manufatti assumevano diverse denominazioni in base al loro utilizzo: cavo, cànipo o cànnapo, canapétto da biroccio, caezzù, mòrze, testière, cordelle da frusta, corde de stoppa, spaghi da pecora, da rete, da muratore, spago fino, cégna e balza. Nell’Italia industrializzata del boom economico, l’attività del cordaio iniziò la sua decadenza; nonostante ciò, i fratelli Ganzetti tentarono di meccanizzare il lavoro, utilizzando un macchinario per ripulire i fili già confezionati: la smaglia.